Un tempo i romani dicevano “nomen omen” intendendo, con questa locuzione latina, come nel nome sia contenuto il destino del suo possessore.
Ossola, chiamandosi dunque Raffaello, è così soggetto alla necessità di un nome che il destino gli ha conferito, imponendogli implicitamente una maestria tecnica “raffaellita” da artista straordinario.
Nella fattispecie, tutto coincide e si evince nella capacità di costruire ardite architetture sospese nel cielo, rendere con estrema naturalezza il colore e le venature del marmo o il dettaglio paesaggistico e, soprattutto, la visione di una dimensione altra dell’esistenza difficilmente immaginabile nella realtà del pensiero razionale. Una peculiarità, quest’ultima, che contraddistingue questo artista che sa così coniugare tecnica ed ispirazione, supremo talento esecutivo ed intuizione che agisce nel profondo. La tecnica da sola non basta. Può costituire una base sicura, un trampolino di lancio, ma dev’essere unita ad un’idea forte che lampeggia e chiede incessantemente di essere realizzata nella concretezza dell’opera che rappresenterà a sua volta, quando compiuta, quello stile personalissimo che è il vero luogo dell’arte. Non basta dunque la scelta del soggetto, per originale ed inedito che sia. E’ necessaria la personalizzazione, l’impronta dello spirito che ha mosso l’artista ad esprimersi in quella maniera stilistica unica ed irripetibile. Perché un’opera d’arte vera è sempre pezzo unico, con una propria storia ed un proprio destino nel mondo degli uomini.
Nel caso della pittura di Raffaello Ossola, potremmo trovare diverse terminologie. Potremmo definirla simbolismo fantastico, surrealismo onirico o quant’altro, ma sarebbero tutte inadeguate e limitative per definire l’opera di questo autentico maestro. La parola da sola denuncia tutto il limite del linguaggio nei confronti dell’infinito, del divino o dell’ignoto. Perché sono dipinti che prima ancora di essere osservati chiedono di essere sentiti, realizzando il passaggio dalla contemplazione iconografica a quella iconologica, ovvero inerente l’interpretazione del simbolo. Ossola rappresenta l’irrappresentabile e procede per simboli. Per aiutarci in questo percorso, nelle sue pubblicazioni l’artista inserisce degli epigrammi, quali indizi volti a ricostruire il Senso. Riflessioni celebri, massime, incisi portati dal vento della storia. Una per tutte, di Franklin Delano Roosvelt, il grande presidente degli Stati Uniti in carica durante la seconda guerra mondiale. Ebbene, forse pochi sanno ch’egli era anche un grande filosofo. Ossola riporta una sua riflessione. Così recita: “Gli uomini non sono prigionieri del loro destino ma delle loro menti.” Un’acuta riflessione che ci porta a pensare che la mente umana può farci vivere una vita da reclusi in una prigione senza muri e senza sbarre. Quella mente che in qualche modo ci mente (per citare Osho) e ci conduce nei labirinti insidiosi del pensiero e dei suoi limiti. Un pensiero che, incapace di spiegarci il mistero di Dio, lo nega per deduzione diremmo logica. Così come esso non riesce a spiegarci la dimensione metafisica, l’aldilà della ragione. Eppure ci sono in noi dimensioni illimitate ed infinite possibilità di giungere alla consapevolezza del Sé.
Ossola si interroga. Qual è il piano di Dio? Forse il piano intuitivo? Ecco la porta nel cielo aperta verso un aldilà che non è tenebra ma luce assoluta e dimensione infinita dove si compie tutto, sempre. Il piano dell’intuizione agisce in noi come un lampo improvviso nel buio. Ecco, forse, la metafora più corrispondente. Ognuno di noi ha dentro questa facoltà, questo quid imponderabile che potremmo considerare un Dio vivente che ci parla. Potremmo chiamarlo anche Angelo del Buon Consiglio. In qualche modo tutti siamo chiamati a seguire la via del cuore ed a superare le ragioni della mente. Attraverso l’abbandono delle infrastrutture razionali ma anche emozionali (sovente le emozioni ci inducono in errore creandoci stati alterati di percezione) che ci impediscono – come una cortina fumogena – di vedere oltre, abbiamo la straordinaria possibilità di concepire dimensioni sottili dove i nostri valori terreni divengono, al confronto, improvvisamente relativi e riduttivi. E’ questo il significato più eloquente dell’indagine di Ossola inerente il Sopramondo. E, ancora oltre, ci indica come non basti il raggiungimento della percezione sottile, ma dell’appercezione, termine apparentemente complicato che vuol semplicemente significare “coscienza della percezione stessa”. In altre parole, abbracciare, far proprio il Senso raggiunto attraverso l’intuizione intellettiva. E, in questa ottica, la Coscienza si pone al centro del cammino di crescita individuale.
Raffaello Ossola non rappresenta dunque il reale nella sua definizione ordinaria, quotidiana. Non è un surrealismo di matrice puramente psichica con accenti paradossali alla Magritte, per intenderci. Non c’è l’inversione inquietante della realtà, il percorso contromano. Ossola collega i fili invisibili di un’indagine interiore con chiari riferimenti esoterici (dall’etimo greco, in radice, éso=dentro). Le parole non potrebbero descrivere questi contenuti alti. Ecco che le immagini silenti, ricche di simboli, visioni cromatiche e spaziali di forte suggestione, divengono più eloquenti delle parole proferite. Qualsiasi disquisizione – per esaustiva e dotta che sia – risulterebbe inadeguata al confronto. L’immagine può ciò che la parola nega nell’evidente limite del linguaggio. Gli obelischi, gli alberi, le architetture…ogni cosa rappresentata ha un significato che si cela in sé. Gustav Jung, psicanalista ed antropologo svizzero, già connazionale di Ossola, con un sua definizione molto celebre, sosteneva che la Verità sta proprio nel simbolo conclamato. Il simbolo (inteso non come feticcio) secondo questa tesi, contiene l’evocazione di significati profondissimi universalmente riconoscibili. Così le piramidi, gli obelischi, gli alberi rappresentati, dietro l’apparenza dell’immagine celano realtà ultime ed estreme. L’albero, ad esempio, di cui questa pittura riporta continui riferimenti, è presente non solo nell’iconografia religiosa e filosofica di tutte le civiltà, ma anche negli insegnamenti ermetici, esoterici e nella cabala ebraica. Nella nostra tradizione cristiana, l’albero è citato nel libro della Genesi. Due in particolare vengono menzionati. Quello della Conoscenza del bene e del male e quello della Vita presenti nel giardino dell’Eden, dove ha luogo il celebre episodio biblico della cacciata. Nell’interpretazione puramente semiologica, l’albero contiene in sé tre dimensioni nella struttura composta da radici, fusto e chioma. Le radici potrebbero essere la dimensione sotterranea, il contatto viscerale con la madre terra ma anche il legame con gli inferi. Il fusto un percorso, un passaggio in cui scorre veloce la linfa che alimenta la pianta, la congiunzione tra sotto e sopra. La chioma, infine, il contatto con l’Elemento ultimo, l’Etere o quintessenza divina. La cabala ebraica, per citare un altro esempio, lo rappresenta in un frazionamento geometrico con piani dimensionali contenenti l’articolazione dell’Intelligenza umana e divina. Un simbolo potente, dunque, che il pittore richiama di continuo al punto da farlo diventare uno dei motivi ricorrenti della sua indagine. In diversi quadri viene riprodotto capovolto. Un messaggio criptico fondamentale, quasi una verità d’assioma. Le nostre radici sono in cielo e non in terra. Oggi anche gli scienziati sostengono che siamo figli delle stelle, frutto dell’esplosione di comete contenenti nelle polveri cosmiche elementi essenziali della vita che in miliardi di anni si sono combinati fra loro fino al punto evolutivo che conosciamo. Ossola rovescia un simbolo sacro, e fa coincidere la sua invenzione figurativa con il dettato scientifico. Ecco spiegate le radici nel cielo. La vita ha senso se vissuta nella comprensione di entrambe le dimensioni, quella terrena e quella celeste o divina, in una visione non antitetica ma complementare. Piedi per terra e testa in cielo, potremmo sintetizzare.
Nelle conclusioni di questo pittore eclettico ed immaginifico, magistrale nell’esecuzione dei dettagli che realizzano le sue felici intuizioni, c’è tutto il senso di un aldilà della pittura in cui si specchia la vita stessa. Un aldilà non oscuro o temibile ma pieno di luce, di bellezze e di colori ai limiti dell’immaginazione umana. Riferimenti astratti, giardini di un possibile Eden, citazioni ancestrali, apparizioni oniriche e simboli, tanti. Di fuoco (la piramide), di cielo e di terra (l’albero) oppure di tempo (il filo a piombo nel sasso, la mano protesa). Tutto è contestualizzato nel sacro concetto che arde come fiamma viva. In questa breve trattazione abbiamo più volte citato il pensiero, la mente, la coscienza e il suo rapporto con le ragioni non dichiarate, come l’inconscio. A questo proposito appare appropriata la citazione del continuatore della ricerche freudiane, Jacques Lacan, il quale, nell’esposizione della teoria dell’Alterità (ovvero l’Altro in noi che racchiude la vera essenza a dispetto dell’individuo pseudo-senziente che si esprime con linguaggio coordinato) denuncia implicitamente i limiti dell’essere parlante. La nostra vera dimensione è quella dove noi non pensiamo razionalmente di essere. Quando la mente ingannatrice e tentatrice – in questo senso potenzialmente anche diabolica – si spegne o va in pausa, sorge l’Altro, ciò che noi siamo in verità. Un “individuo altro” che opera con intelligenza suprema e non è sottoposto o vincolato al controllo vigile e persecutorio del pensiero per realizzarsi. “Penso dove non sono e sono dove non penso” è uno dei postulati fondamentali del grande psicanalista francese, applicabile senza dubbio all’iperbole cognitiva di Ossola. E laddove non si pensa d’essere, si espande nel Tutto quella vita vera che pure è in noi in una vicinanza che sentiamo, tuttavia, stranamente lontana nella presunzione della ratio e nei trionfi di quell’Ego, con al centro il Me, che mette a tacere il suo Alter.
Prof. Giancarlo Bonomo
Novembre 2011